Brusca è libero. Ma può davvero esistere redenzione per chi ha sciolto un bambino nell’acido?
- Angela Nicoletti
- 6 giu
- Tempo di lettura: 2 min
«Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’autobomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento.»
Le parole sono di Giovanni Brusca. Sono tratte dal libro “Ho ucciso Giovanni Falcone”, scritto da Saverio Lodato. E non hanno bisogno di commento.
Dopo 25 anni di carcere, l’uomo che si definisce senza esitazioni autore di simili orrori è oggi un uomo libero. Ha collaborato con la giustizia, ha detto di essersi pentito, ha chiesto perdono. È sotto protezione, ha una nuova identità, una nuova vita. Ma può davvero esserci un “dopo” per chi ha ordinato e commesso simili atrocità?
La legge lo consente. Brusca ha usufruito dei benefici previsti per i collaboratori di giustizia. Ma c’è un limite morale che nessuna legge dovrebbe superare, ed è quello della dignità delle vittime. Perché se è vero che uno Stato democratico deve permettere a chi collabora di ricevere un trattamento giuridico differente, è anche vero che ci sono colpe che nessun pentimento può cancellare, nessuna cella può estinguere.
Non è la scarcerazione in sé a indignare. È la retorica con cui è stata accolta, quasi fosse una rinascita, un riscatto. Brusca oggi può camminare per strada — in una strada diversa, lontana, protetta — ma Falcone, Borsellino, Giuseppe Di Matteo, gli agenti delle scorte, gli innocenti travolti da quell’onda di morte, no. Loro sono rimasti fermi nel tempo.
Chi ha sciolto un bambino nell’acido, privandolo di tutto – vita, futuro, umanità – può davvero meritare una seconda possibilità? È giusto che chi ha spento cento, duecento vite, possa accendere di nuovo la propria? Queste sono le domande che dobbiamo farci oggi. Non per vendetta. Ma per rispetto. Per memoria. Per giustizia vera.
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