Mamma e figlioletta morte nel parco e l'ultima carezza mancata
- Angela Nicoletti
- 9 giu
- Tempo di lettura: 2 min
In un parco pubblico della Capitale, tra le fronde verdi e i vialetti curati, il silenzio ha urlato più forte di qualunque sirena. Una donna è stata trovata chiusa in un sacco. Poco distante, tra i rovi, sua figlia di appena sei mesi. Morta. Una scena che fa male anche solo a raccontarla. Ma che va raccontata. Perché questa non è solo cronaca. È la cartina di tornasole di un mondo che ha smesso di guardarsi intorno.
Secondo le prime ricostruzioni, madre e figlia vivevano lì, ai margini tra la vegetazione di Villa Pamphili. Senza fissa dimora, invisibili agli occhi della città. Invisibili anche in una zona “bene” di Roma, frequentata da famiglie, da bambini che giocano, da turisti che fotografano la bellezza di un parco nel cuore della civiltà occidentale. Nessuno si è accorto di nulla. Nessuno ha visto, chiesto, offerto un aiuto. E così, nella Capitale d’Italia, nel 2025, una neonata è morta presumibilmente di stenti, accanto alla madre, in una delle città più fotografate del mondo.
Questa vicenda non può lasciarci indifferenti. E invece è proprio l’indifferenza il nodo centrale. Il vero male del nostro tempo. Più subdolo della povertà stessa. Perché la povertà è un dramma, ma l’indifferenza è una scelta. Viviamo in una società che ha disimparato a vedere: presi dai nostri problemi, schiacciati dai pensieri, distratti dai cellulari, non abbiamo più lo sguardo libero per accorgerci del dolore che ci cammina accanto.
Quante volte attraversiamo la strada evitando lo sguardo di chi tende la mano? Quante volte ignoriamo una presenza scomoda su una panchina, convinti che “non sia affar nostro”? Eppure, basterebbe poco. Un’attenzione, una parola, una segnalazione. Basterebbe un lampo di umana pietà per cambiare il corso di un destino.
L’Italia che ci è stata consegnata dai nostri nonni era un Paese costruito con il sacrificio, il sangue, la solidarietà. Oggi rischia di trasformarsi in una nazione dove l’umanità si dissolve in mezzo a mille notifiche, e dove si moltiplicano gli appelli solo dopo le tragedie. Ma è troppo tardi quando una bambina muore senza neanche un nome sulle labbra di qualcuno.
È inaccettabile che in una città come Roma, simbolo mondiale di civiltà e cultura, una madre e una figlia possano vivere — e morire — in un parco pubblico, senza che nessuno se ne accorga. E lo è ancora di più
se pensiamo che questa storia non è un caso isolato. Basta sfogliare i giornali degli ultimi mesi per trovare altri drammi sepolti sotto coltri di disattenzione e silenzi.
La morte di quella bambina è la morte simbolica della nostra coscienza collettiva. È la sconfitta di un sistema che non protegge, che non vede, che non ascolta. È il fallimento delle istituzioni, ma anche di ciascuno di noi.
Serve una nuova consapevolezza. Serve uno sguardo che si fermi, che si accorga, che si faccia carico. Serve ricostruire una comunità che non si volti dall’altra parte. Perché nessuno, mai, dovrebbe nascere e morire nella solitudine. Men che meno una bambina di sei mesi.
Non lasciamo che questa storia finisca nell’oblio della cronaca nera. Facciamone memoria viva, riflessione collettiva, spinta al cambiamento. Perché solo così potremo onorare davvero la vita che non abbiamo saputo proteggere.
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