
Abbiamo tradito un bambino. E lo chiamiamo giornalismo.
- Angela Nicoletti
- 27 mag
- Tempo di lettura: 2 min
di Angela Nicoletti
C’è un tempo per raccontare, e un tempo per tacere.
Ma quando il sensazionalismo prende il sopravvento sul senso della misura, allora vuol dire che abbiamo perso la rotta. E non solo come giornalisti, ma come esseri umani.
In questi ore alcune testate hanno dato ampio spazio a un episodio accaduto in una scuola primaria di un paese del Cassinate, dove un bambino molto piccolo avrebbe aggredito alcune insegnanti con calci e testate, provocando escoriazioni e piccoli traumi.
Un fatto delicatissimo, che ha richiesto l’intervento del personale sanitario e che certamente ha scosso chi era presente. Ciò che ha davvero scioccato — me per prima — è stato vedere questa vicenda sbattuta in prima pagina, come se fosse una banale notizia di cronaca. Come se non ci fosse di mezzo un minore in evidente difficoltà. Come se fosse normale raccontare tutto: luogo, dettagli, età, reazioni.
Per scelta, in questo pezzo non troverete il nome del paese dove è accaduto tutto questo, anche se lo conosco bene. È una scelta, non una dimenticanza. Perché la vera notizia non è dove, ma come: come è stato possibile che una vicenda così delicata, che avrebbe dovuto restare confinata dentro le mura di una scuola e nella protezione delle istituzioni competenti, sia finita invece tra le mani dei giornalisti. E poi, ovviamente, online. Tra titoli e commenti.
Chi ha parlato? Chi ha sentito il bisogno di “informare” la stampa? Chi ha pensato che fosse giusto raccontare l’episodio nei dettagli, ignorando completamente il diritto alla riservatezza, alla tutela, alla dignità?
Siamo alla deriva. Una deriva professionale e morale.
E c’è un aspetto, su tutti, che grida vergogna: la violazione della Carta di Treviso.
La Carta di Treviso è un documento fondamentale dell’etica giornalistica italiana, approvato nel 1990 e aggiornato negli anni, che detta le linee guida per il trattamento delle notizie che coinvolgono i minori.
Stabilisce che i giornalisti devono tutelare l’identità, la dignità e la privacy dei minori, evitando ogni dettaglio che possa renderli riconoscibili, soprattutto nei casi che riguardano situazioni di disagio, violenza, devianza o sofferenza.
Non è solo una raccomandazione: è un dovere. È un vincolo deontologico che ogni giornalista ha il compito di rispettare.
E allora mi chiedo: dov’erano la deontologia, la prudenza, la sensibilità, quando è stato deciso di pubblicare questa notizia?
Abbiamo dato in pasto alla curiosità generale non un bullo, non un delinquente, non un adulto responsabile delle sue azioni. Un bambino.
Un bambino che ha manifestato un disagio profondo, con modalità che certo vanno analizzate, ma non raccontate al pubblico.
La responsabilità più grande, però, è nostra. Di noi giornalisti. Che dovremmo avere il senso della notizia, ma anche — e soprattutto — il senso del limite.
E invece no. C’è chi ancora oggi considera “fare lo scoop” più importante del proteggere una persona fragile.
Ma se oggi raccogliamo i cocci di un’infanzia sempre più inquieta e di un’adolescenza smarrita, è anche per colpa nostra.
Perché la nostra penna può curare, ma può anche ferire.
Non è questo il giornalismo che voglio rappresentare.
Non è questo il giornalismo di cui abbiamo bisogno.
Serve un’etica più forte del clamore. Serve rispetto. Serve coscienza.
Perché quando un bambino sta male, la nostra priorità non deve essere raccontarlo.
La nostra priorità dev’essere proteggerlo.
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