Carmine Belli e il fantasma di Stasi: se l’innocenza arriva troppo tardi
- Angela Nicoletti
- 21 mag
- Tempo di lettura: 3 min
di Angela Nicoletti
Sul volto di Carmine Belli non c’è più spazio per un sorriso. Solo silenzio, dolore e una paura che non passa. Paura di rivivere quell’incubo che ha distrutto la sua esistenza. Carmine era un carrozziere di Rocca d’Arce, un uomo semplice, con una vita modesta ma dignitosa. Fino a quando, nel 2001, è stato accusato di uno dei delitti più sconvolgenti della cronaca italiana: l’omicidio di Serena Mollicone.
Per 17 mesi Carmine ha vissuto in una cella di isolamento, lontano da tutto. Solo, abbandonato da uno Stato che lo aveva condannato senza prove, senza appello, senza pietà. È stato assolto in primo grado, in appello e in Cassazione. Tre gradi di giudizio per dire che non era lui il colpevole. Ma il danno era già stato fatto. E nessuno glielo ha mai risarcito.
Oggi Carmine è un uomo malato, schiacciato dal peso di una vita che non è più la sua. Dopo l’assoluzione, non è riuscito a riprendere il lavoro da carrozziere, né a riconquistare quella normalità che prima dava per scontata. Vive in gravi difficoltà economiche, dimenticato da tutti. Neanche un euro di risarcimento per i 17 mesi di ingiusta detenzione. Nulla.
La sua vicenda torna oggi con forza alla mente guardando un altro volto noto della cronaca nera: Alberto Stasi, condannato a 16 anni per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi. Non vogliamo dire che i due casi siano uguali, ma c’è una domanda che incombe: e se un giorno si scoprisse che anche Stasi è innocente? Se ciò dovesse accadere – e per molti osservatori è uno scenario non così lontano – chi gli restituirà il tempo perso, l’identità distrutta, la libertà negata?
Il confronto tra Belli e Stasi non è tanto giuridico quanto umano. Parla della fragilità del nostro sistema giudiziario, della possibilità che un’indagine frettolosa, una pista sbagliata, un pregiudizio possano segnare per sempre la vita di una persona. Carmine Belli è stato assolto, ma non liberato: ha perso tutto, e non ha più fiducia in nulla.
Entrambi i casi – quello di Serena Mollicone e quello di Chiara Poggi – sono stati farciti di depistaggi, bugie, errori investigativi. È stato proprio un depistaggio, all’epoca, a trascinare Carmine Belli dentro un incubo giudiziario che non gli apparteneva. Un depistaggio che, oggi possiamo dirlo quasi con certezza, fu orchestrato da chi voleva nascondere la verità. Carmine venne usato, forse incastrato, per coprire le responsabilità degli assassini di Serena. Ed è questo che rende ancora più drammatica la sua vicenda.
Il suo volto è diventato il simbolo di chi ha conosciuto il carcere da innocente. Di chi, una volta uscito, non ha più trovato un posto nel mondo. Ogni volta che la giustizia sbaglia, non si tratta solo di una sentenza: si tratta di vite spezzate.
Quante altre storie come quella di Carmine Belli restano nell’ombra, sepolte dal tempo e dall’indifferenza? Ma c’è un aspetto, forse il più importante, che sento di dover condividere anche come giornalista. Il nostro compito non è quello di sostituirci ai magistrati, né di sentenziare colpe o innocenze. Il nostro compito è raccontare, sì, ma anche capire. Andare oltre la cronaca, oltre il titolo, oltre il clamore del momento.
Io stessa, ai tempi dell’arresto di Carmine Belli, ho avuto dubbi, interrogativi. Ma quando è arrivata l’assoluzione, non mi sono voltata dall’altra parte. Al contrario, ho sentito il dovere morale di restituire dignità a quell’uomo. Ho scritto di lui, ho raccontato il suo dolore, il suo presente difficile, la sua solitudine. Ho cercato, nel mio piccolo, di reinserirlo anche nella vita sociale, coinvolgendolo in iniziative, dando voce a chi per troppo tempo era stato messo a tacere.
Perché il giornalismo, se vuole essere davvero libero e onesto, deve avere il coraggio non solo di indagare, ma anche di riconoscere quando sbaglia. Di rimettere al centro la persona. Perché dietro ogni nome su un fascicolo giudiziario, dietro ogni foto pubblicata su un giornale, c’è una vita. E spesso una vita in pezzi.
Ed è lì, proprio lì, che il giornalista deve saper guardare.
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