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Come si sopravvive alla morte di nove figli? La storia di una madre di Gaza diventata simbolo del dolore del nostro tempo

  • Immagine del redattore: Angela Nicoletti
    Angela Nicoletti
  • 25 mag
  • Tempo di lettura: 2 min

di Angela Nicoletti


Ci sono dolori che la mente umana non riesce a contenere. Ci sono storie che non si possono raccontare senza sentire il cuore spezzarsi, parola dopo parola. Questa è una di quelle storie. Una madre, la dottoressa Alaa al-Najjar, pediatra di Gaza, una donna che ha dedicato la sua vita a salvare bambini. E che, in un solo giorno, ha perso i suoi. Nove. Nove figli, tutti uccisi da un bombardamento. Il più grande aveva dodici anni, l’ultimo solo pochi mesi in più di un anno. L’unico sopravvissuto, proprio lui, il più piccolo. 


Non è facile scrivere queste righe. Non è facile nemmeno leggerle. Perché dentro questa tragedia si accumula l’insopportabile: l’ingiustizia, l’assurdo, il dolore puro. Cosa può fare una madre di fronte alla morte di un solo figlio? Conosco donne che si sono perse per sempre, inghiottite da un lutto troppo grande. E allora mi chiedo: come si fa a sopravvivere alla morte contemporanea di nove figli? Quale spazio può restare per il respiro, per la speranza, per un pensiero che non sia solo urlo?


Eppure questa madre è viva. Sopravvissuta. Insieme al marito e a quel figlio rimasto. Cosa sarà della loro esistenza ora? Come si fa a tornare a vivere quando tutto ciò che ti definiva è stato cancellato in un attimo? Come può una donna che ha giurato di proteggere i bambini, veder morire i propri nel modo più crudele?


Questa non è solo una tragedia familiare. È il simbolo di un’epoca disumana, di una guerra che non guarda in faccia nessuno, che non risparmia nemmeno l’innocenza. In un mondo in cui ogni giorno ci abituiamo a leggere di madri che uccidono i figli, figli che uccidono i genitori, incidenti assurdi, esplosioni, stragi… niente, davvero niente, negli ultimi decenni, può eguagliare l’orrore di questa storia.


La storia di questa donna non può finire nel silenzio. Lei deve diventare un simbolo. Della sofferenza estrema, ma anche della possibilità – se mai ci sarà – di rinascere dal nulla. Deve diventare il volto di tutte le madri che hanno perso, di tutte le madri che combattono, di tutte le donne che in mezzo alla guerra, alla fame, al dolore, scelgono ancora la vita. Non lasciamola sola. Non lasciamo che il suo nome, il suo volto, la sua tragedia, scivolino via nel tritacarne dell’informazione. Ha bisogno di noi. E forse noi abbiamo bisogno di lei. Per ricordarci che, anche nel dolore assoluto, c’è una scintilla di umanità che chiede di essere riconosciuta.



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