Quando la penna diventa un randello e il giornalismo dimentica l’etica
- Angela Nicoletti
- 19 ago
- Tempo di lettura: 3 min
“E fu così che da un giorno all’altro
Bocca di rosa si tirò addosso
L’ira funesta delle cagnette
A cui aveva sottratto l’osso.”
(Fabrizio De André – Bocca di Rosa)
Nelle piccole e grandi province italiane la guerra tra poveri è diventata sport nazionale. E non servono ring o palchi: bastano una tastiera, una connessione internet e un po’ di risentimento personale.
La dinamica è tanto semplice quanto velenosa: in un contesto dove il lavoro scarseggia, la politica arranca e l’informazione è sempre più precaria, c’è chi preferisce attaccare il vicino di banco piuttosto che chi guida la nave. Si prendono di mira colleghi, professionisti, collaboratori, purché si possa puntare il dito e alimentare un po’ di polvere mediatica.
Nel giornalismo, questo fenomeno ha raggiunto livelli preoccupanti.
Da una parte c’è chi, nonostante le difficoltà, continua a fare il proprio mestiere con dignità: tra collaborazioni sottopagate, partite IVA in apnea, etica professionale e codici deontologici che non sono solo fogli da tirare fuori al bisogno. Dall’altra, chi ha scoperto il potere dei social e lo usa come una clava, dimenticando che anche il giornalismo ha delle regole. E no, non bastano qualche follower e una pagina Facebook per definirsi “voce libera”.
Si attacca chi accetta lavori sottopagati, chi fa l’ufficio stampa, chi si accontenta di quel “piatto di lenticchie” che almeno permette di vivere senza dover baciare anelli o confondere propaganda e cronaca.
Il risultato è una faida continua, uno scontro sterile, un’informazione trasformata in arena. Eppure servirebbe solo una cosa: la regola dell’appropriatezza.
Una comunicazione istituzionale, se vuole parlare a nome di una comunità, deve essere firmata da chi quella comunità la rappresenta, non da singoli portavoce in cerca di visibilità. Allo stesso modo, un sito che si propone come voce giornalistica autorevole deve essere imparziale, trasparente, libero da conflitti d’interesse e anche eventuali velleità politiche.
Ma forse è chiedere tanto in un tempo in cui si confonde la viralità con la verità, e l’indipendenza con il tifo, anche il giornalismo finisce per piegarsi a queste logiche. Con un’aggravante: mentre si fanno le pulci a chi lavora con i social, si dimentica che con quei social – spesso – si campa. Si dimentica che molte figure professionali, anche giornalisti, gestiscono pagine e comunicazione digitale per vivere, si formano, si reinventano. E tutto questo non merita lo stigma, ma semmai una riflessione più onesta.
Chi vi scrive, in trent’anni di carriera, ha centrato risultati importanti: ho condotto due inchieste giornalistiche che hanno portato all’apertura di indagini, e una di queste — Welcome to Italy — si è conclusa con condanne per gli imputati. Ho seguito da vicino omicidi sia di rilievo nazionale che locale.
Nel 2018 sono volata a Palermo per ritirare il premio giornalistico 'Piersanti Mattarella', un riconoscimento prestigioso che, nel Lazio, prima di me era stato assegnato a una sola altra collega. Il premio mi è stato conferito per un’inchiesta sull’uso dei beni confiscati alle mafie, un tema che ritengo cruciale.
Per me, questo è il giornalismo: scavare, denunciare, portare alla luce. Non mi interessa raccontare la sagra della salsiccia o l’ultima lieta novella sul pupo della vicina di casa. Questo è ciò che andrebbe raccontato davvero, quando si parla della vita di una giornalista di provincia. Una vita fatta anche di uffici stampa e pagine social, sì — ma non per scelta. Per sopravvivenza.
Eppure, nonostante tutto, il coraggio non l’ho mai sepolto sotto una coltre di convenienze o interessi. Perché il cronista, se ce l’ha nel DNA, non ha padroni, non accetta vincoli. E soprattutto, racconta la verità per quella che è. Non per come farebbe comodo raccontarla.
Perché la verità è che questa guerra tra poveri non ha vincitori. Solo categorie più deboli e isolate. E mentre ci si accapiglia su chi è più “puro”, la credibilità dell’intera categoria finisce in pezzi. Il giornalismo non ha bisogno di eroi né di santi, ma di rigore, coerenza e rispetto reciproco. Il resto è rumore.













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