“Giustizia, non vendetta: se il dolore colpisce chi fa solo il proprio dovere”
- Angela Nicoletti
- 14 ott
- Tempo di lettura: 4 min
di Angela Nicoletti
È impossibile restare indifferenti davanti alla tragedia che si è consumata a Palermo. Paolo Taormina, un ragazzo di soli 21 anni ucciso brutalmente, in un modo che richiama alla mente il dramma di Willy Monteiro Duarte, pestato a morte a Colleferro nel 2020. Due storie diverse, ma unite da un filo nero: la ferocia cieca, la morte gratuita, il dolore insopportabile dei familiari.
Eppure, c’è qualcosa che continua a tornarmi in mente con amarezza, qualcosa che va oltre l’omicidio in sé: le parole urlate contro chi ha deciso di difendere l’accusato, quel ventottenne che ora si trova al centro dell’attenzione giudiziaria e mediatica.
Quelle parole — comprensibili nel dolore, ma comunque pesanti — colpiscono non solo gli avvocati, ma anche chi come me scrive di cronaca, spesso scomoda, e si ritrova sistematicamente a essere bersaglio di rabbia, sospetti, offese.
La giustizia non è vendetta
In Italia, la Costituzione riconosce il diritto alla difesa come uno dei pilastri della democrazia. È un principio che vale per tutti. Anche per chi è accusato del più atroce dei crimini. È difficile da accettare, lo so. Ma se lo togliamo a uno, allora possiamo toglierlo a chiunque. E a quel punto la giustizia non è più giustizia, diventa qualcos’altro. Diventa linciaggio.
Chi difende un imputato — e parliamo di difesa tecnica, professionale, dentro un’aula di tribunale — non è un complice, né un nemico della vittima. È parte di un sistema che, proprio perché rispetta le regole, si distingue dalla barbarie che combatte.
Il giornalismo vero non si fa al supermercato
Lo stesso vale per noi giornalisti. Quando raccontiamo fatti tragici come questo, veniamo spesso messi nel mirino. Accusati di “scrivere senza sapere”, di “infangare”, di “approfittare del dolore”. A volte perfino minacciati. Eppure, il nostro lavoro — quello vero, non quello delle pagine urlate e delle notizie copiate dai social — nasce da un rapporto diretto con le fonti istituzionali, con le forze dell’ordine, con i documenti ufficiali. Non andiamo a cercare le notizie dal salumiere, le troviamo dove la legge ce le mette a disposizione. Non ci schieriamo. Raccontiamo. E se lo facciamo con onestà, senza deformare, senza spettacolarizzare, il nostro mestiere non è un’offesa: è servizio pubblico.
La tentazione del nemico facile
È naturale, nel dolore, cercare un volto su cui scaricare la rabbia. Ma a volte si sbaglia bersaglio. Non è l’avvocato che ha distrutto una famiglia. Non è il giornalista che ha strumentalizzato un lutto. Non sono le parole o le analisi a togliere la vita a un ragazzo. La rabbia dovrebbe andare verso chi ha agito, non verso chi prova a mettere ordine nel caos. A maggior ragione in una società già esasperata, dove il confine tra opinione e condanna sommaria si assottiglia ogni giorno di più.
Non confondiamo la sete di giustizia con il bisogno di un colpevole facile
C’è una linea sottile, sottilissima, tra la sete di giustizia e la fame di un colpevole da odiare, anche quando non ha fatto altro che svolgere il proprio ruolo. Ed è una linea che, in questi giorni, è stata varcata più volte. Un avvocato che difende un imputato, anche se accusato di un crimine efferato, non è meno degno di rispetto. Fa ciò che la legge gli impone, garantendo che quel processo non sia un’esecuzione sommaria, ma un atto di civiltà. E solo quando ogni diritto sarà stato rispettato, allora potremo dire che giustizia è stata fatta davvero.
Lo stesso vale per chi scrive. Non siamo infallibili. Ma non siamo nemici. Siamo strumenti — a volte imperfetti, spesso scomodi — attraverso cui l’opinione pubblica può conoscere, capire, farsi un’idea. Anche quando quell’idea fa male.
Quando la rabbia è uno specchio
Non è facile, lo so. Lo capisco. Nessuno dovrebbe mai trovarsi a piangere un figlio, un fratello, un amico, per mano della violenza. Ma non possiamo chiedere giustizia e poi attaccare gli strumenti che la rendono possibile. Spesso, quando mi ritrovo a dover scrivere storie che mettono a disagio, che disturbano, che toccano nervi scoperti, ricevo insulti. Messaggi feroci, talvolta minacce. Ma non da chi ha commesso un crimine. Da chi non riesce ad accettare che la verità sia più complicata della versione che vorrebbe sentire. Succede anch
e ai colleghi, succede agli avvocati, succede a chi, nel pieno rispetto delle regole, non si piega al clima da forca. E questo, in una democrazia, dovrebbe far riflettere.
Serve più coraggio. Anche nel silenzio.
Il dolore merita rispetto. Sempre. Ma non può trasformarsi in una giustificazione per attacchi ingiustificabili. In un tempo in cui tutto sembra gridare, serve il coraggio di restare lucidi, anche quando è più facile lasciarsi andare alla furia. Anche il silenzio, a volte, è un atto di coraggio. Quello di chi, invece di urlare contro chi fa il proprio dovere, si ferma. E prova, nonostante tutto, a capire. Perché non è vero che bisogna scegliere da che parte stare. Si può stare dalla parte della verità, del rispetto, del dolore autentico. E anche da quella della giustizia.













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