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Heysel, 40 anni dopo: il dolore, il coraggio, la memoria in una foto simbolo di una tragedia senza fine

  • Immagine del redattore: Angela Nicoletti
    Angela Nicoletti
  • 29 mag
  • Tempo di lettura: 2 min

Sono passati quarant’anni da quella maledetta sera del 29 maggio 1985, ma nessuno ha mai dimenticato. Non l’Italia intera, non l’Europa calcistica, e certamente non le famiglie colpite da quel massacro, consumatosi all’interno dello stadio Heysel di Bruxelles poco prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool.


Trentanove vittime. Centinaia di feriti. Migliaia di vite segnate per sempre. In mezzo a quelle gradinate di cemento, crollate sotto il peso della follia e dell’odio, ci sono storie che ancora oggi parlano di dolore, di salvezza e di dignità.


C’era anche Davide Troiano, avvocato di Cassino, appassionato pianista e grande tifoso del Napoli. Quel giorno, per amore del figlio undicenne Guido – juventino sfegatato – decise di accompagnarlo a Bruxelles. Un gesto di affetto e di fiducia trasformato in incubo. In una delle immagini simbolo della tragedia, lo si vede mentre fugge stringendo per mano il figlio tra la folla terrorizzata. Il volto segnato dallo spavento, ma guidato da un’unica forza: quella di un padre che protegge.


E poi c’era Loris Messore, giovane di Pontecorvo, ventiquattro anni. Anche lui era partito per vedere la Juventus, anche lui spinto dall’entusiasmo, dalla passione. Ma Loris non tornò più. Il suo nome è scolpito nella memoria della sua città, e ogni anno, in silenzio, lo si ricorda. Con discrezione e con amore.


L’Heysel non è solo una pagina nera del calcio. È una ferita umana. È il simbolo di quanto la passione possa trasformarsi in orrore quando viene lasciata in balìa della violenza e dell’irresponsabilità. È anche il luogo dove molti scoprirono, in un solo attimo, cosa significasse perdere tutto.


A quarant’anni di distanza, non dimenticare è un dovere. Per chi ha vissuto quell’inferno e ne porta ancora i segni. Per chi ha perso un figlio, un padre, un amico. Per chi quella notte fu testimone impotente di una tragedia annunciata. E anche per chi oggi, tra gli spalti degli stadi, deve ancora imparare che lo sport è un gioco, e mai un motivo per morire.


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    Angela Nicoletti

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