“Lucia Andromeda: vestita di rosa, col vino sulle labbra. E nessuno l’ha salvata”
- Angela Nicoletti
- 20 giu
- Tempo di lettura: 2 min
C’è un dolore che non si riesce a raccontare. Un dolore che si attorciglia alla gola, che fa stringere i pugni e lascia un’unica domanda in sospeso, tra rabbia e impotenza: dov’eravamo, quando Lucia Andromeda poteva ancora essere salvata?
Aveva undici mesi. Una bambina bellissima, con un nome che pareva uscito da una fiaba e due occhi azzurri come il cielo prima del temporale. Occhi pieni di paura, pieni di vita. Era lì, nella modernissima Roma, capitale d’Italia, della cultura, dei palazzi istituzionali, delle ambasciate. Non in un paesino isolato, non in una baracca dimenticata da Dio, ma nel cuore di una città che avrebbe dovuto proteggerla. E invece è stata lasciata sola. Terribilmente sola.
Lucia Andromeda è rimasta una settimana in balia di un padre alcolizzato, instabile, pericoloso. Una settimana senza essere lavata, cambiata, nutrita. Una settimana di pianto e di attese, di odori che nessun neonato dovrebbe mai conoscere. Eppure, qualcuno l’aveva vista. Qualcuno aveva segnalato. Uno di questi cittadini, col cuore gonfio d’indignazione, ha riferito alla polizia che quell’uomo – americano, spaesato, probabilmente già fuori controllo – cercava di farle bere del vino. Del vino a una neonata.
Pensateci. Quanto dolore può provare una bambina di undici mesi privata della madre, costretta a subire il degrado di chi avrebbe dovuto solo amarla?
Sua madre – una donna che, dicono, la adorava – è stata trovata senza vita, abbandonata in un cespuglio di Villa Pamphili. Le circostanze della sua morte sono ancora tutte da chiarire. Ma è proprio in quello stesso parco, pochi giorni dopo, che Lucia Andromeda è stata soffocata da colui che avrebbe dovuto difenderla con la vita. Forse l’alcol aveva ormai cancellato ogni lucidità, ogni coscienza. Ma il risultato non cambia. La bimba è morta. In silenzio. In un luogo pubblico, a pochi passi da passanti, famiglie, fotografi, gente che ha perfino immortalato quella scena di degrado, convinta – così pare – che si trattasse di una madre sciatta e una bambina capricciosa.
Questa storia lacera il cuore perché non è solo una tragedia privata. È una sconfitta collettiva. È il fallimento di un sistema che riceve segnalazioni e non interviene con la prontezza necessaria. È l’ennesima volta in cui una vita fragile viene travolta dalla lentezza, dall’indifferenza, dal sospetto che chi denuncia stia esagerando.
Lucia Andromeda poteva essere salvata. Poteva essere presa in braccio da mani amorevoli, asciugata, vestita di nuovo, coccolata. Invece le è stato tolto tutto: la madre, la dignità, la possibilità di crescere, di giocare, di pronunciare le sue prime parole. Le è stata tolta persino la speranza.
Il vestitino rosa che indossava, tutto sporco e sgualcito, è diventato il simbolo di un dolore che non si cancella. Il simbolo di una Roma che guarda, scatta, segnala – e poi attende. Attende che qualcuno intervenga. Ma il tempo, per Lucia Andromeda, era finito.
Ci guardiamo allo specchio, ora. E ci chiediamo: perché nessuno è riuscito a salvarla?
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