
Sigfrido Ranucci, la notte delle bombe: quando dire la verità diventa pericoloso
- Angela Nicoletti
- 17 ott
- Tempo di lettura: 3 min
di Angela Nicoletti
Ci sono notti che pesano più del silenzio. Notte come quella appena trascorsa a Pomezia, dove due esplosioni hanno squarciato l’aria davanti alla casa di Sigfrido Ranucci, giornalista, autore e volto di Report, una delle trasmissioni più coraggiose e scomode del panorama italiano.
Due ordigni hanno distrutto l’auto di sua figlia e quella che lui stesso aveva parcheggiato poco prima. Pochi minuti di differenza — mezz’ora prima e avrebbe potuto morire una ragazza, un padre, un giornalista. A colpire non è solo la violenza del gesto, ma il messaggio che porta con sé: chi indaga, chi racconta ciò che molti preferirebbero restasse nell’ombra, oggi deve guardarsi le spalle anche sotto casa.
Ma davvero può essere considerato normale vivere in un Paese in cui fare giornalismo d’inchiesta comporta rischi da latitanza, da guerra, da criminalità organizzata?
La voce che non piega la testa
Sigfrido Ranucci è un giornalista che non si è mai fermato davanti al potere, nemmeno quando il potere ha mostrato la sua faccia più sporca. Con Report ha toccato tasti che bruciano: mafia, appalti, corruzione sistemica, politica collusa, servizi deviati, multinazionali senza scrupoli. Le sue inchieste sono spesso sassi lanciati nello stagno, capaci di smuovere acque torbide che molti vorrebbero restassero calme, immobili.
Ma ogni verità che viene detta ad alta voce — quando è davvero verità, quando tocca nervi scoperti — ha un prezzo. E quel prezzo, troppe volte, in Italia lo pagano i giornalisti.
La notte di Pomezia
L’attentato avvenuto davanti alla sua abitazione nella zona di Campo Ascolano non è solo un episodio di cronaca. È un attacco diretto alla libertà d’informazione. Non servono rivendicazioni ufficiali per capirlo: le bombe sotto casa di un giornalista non parlano in codice. Vogliono dire solo una cosa: smettila di raccontare, taci, fatti da parte.
Ma Ranucci — lo ha detto lui stesso — non ha alcuna intenzione di fermarsi. Eppure, oggi non basta più applaudire da lontano il suo coraggio. Servono parole, certo. Ma servono anche fatti: protezione reale, attenzione delle istituzioni, solidarietà concreta. Servono redazioni, direttori, editori, lettori, spettatori pronti a difendere — con ogni mezzo democratico — chi lavora perché le storie vere emergano, anche quando danno fastidio.
Non è solo Ranucci
Il punto, però, è che Sigfrido non è un caso isolato. È solo il nome più noto, il volto che va in onda in prima serata. Ma ci sono decine di giornalisti in Italia che vivono sotto minaccia. Alcuni con la scorta, altri con un silenzio imposto dalla paura. Da Nord a Sud, le querele temerarie, le intimidazioni, i dossieraggi, le pressioni economiche, la censura mascherata da prudenza aziendale: è così che si cerca di spegnere le voci che non piacciono.
E la cosa più grave è che tutto questo spesso accade nel silenzio generale. Perché l’informazione indipendente non fa audience, non fa comodo, non si fa amici.
Ma senza informazione libera, senza voci scomode, senza chi ha il coraggio di scavare, la democrazia è solo una parola vuota.
Non è una bomba, è un avvertimento a tutti noi
Chi ha messo quelle bombe non ha solo voluto colpire un uomo. Ha voluto mandare un segnale a chiunque faccia domande. A chiunque cerchi di capire, di far luce, di raccontare ciò che si preferisce tenere nascosto. E allora no, non è solo “un attentato a Ranucci”. È un attentato al giornalismo. È un avvertimento. È un test per capire se abbiamo ancora il coraggio di difendere la verità — o se preferiamo voltarci dall’altra parte.
Sigfrido continuerà il suo lavoro. Lo ha detto chiaramente, e non sorprende. Perché chi fa inchiesta vera lo sa: ogni storia lasciata a metà è una sconfitta. E ogni rinuncia è un favore al potere.













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